Sorse Elia profeta, simile al fuoco

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XIX Domenica del Tempo Ordinario

La liturgia della XIX domenica del Tempo Ordinario ci offre l’occasione di riflettere sulla figura di Elia profeta, un uomo conquistato e riempito dal Fuoco dello Spirito.

Approfondiamo brevemente alcuni aspetti della sua persona e del suo ministero, che sono nutrimento per la nostra vita di fede.

La Scrittura è la chiave ermeneutica per la comprensione della nostra storia personale; è lei a fondare e stabilire in noi la vita spirituale e a guidarla nel suo sviluppo, nella crescita verso la pienezza dell’amore. È ancora la Scrittura a darle forma, a scandirne i passi, a costituirne la regola per eccellenza. È un rapporto vivo, amoroso, che plasma il cuore e l’essere di colui che fa della Parola di Dio il proprio cibo, il punto di riferimento, la stella che brilla nella notte indicando l’orientamento da seguire verso la meta.

Mettiamoci alla scuola del profeta Elia, che emerge fra tutti i profeti per la sua esperienza di Dio. È infatti un uomo totalmente afferrato dalla potenza di Dio che, nella rilettura cristiana, è il vigore proprio dello Spirito. Il Catechismo della Chiesa Cattolica in un capitolo dedicato allo Spirito Santo così parla di lui:

“… il fuoco simbolizza l’energia trasformante degli atti dello Spirito Santo. Il profeta Elia, che “sorse simile al fuoco” e la cui “parola bruciava come fiaccola” (Sir 48,1), con la sua preghiera attira il fuoco del cielo sul sacrificio del monte Carmelo (Cf. 1Re 18,38-39), figura del fuoco dello Spirito Santo che trasforma ciò che tocca. Giovanni Battista, che cammina innanzi al Signore “con lo spirito e la forza di Elia” (Lc 1,17) annunzia Cristo come colui che “battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (Lc 3,16)… La tradizione spirituale riterrà il simbolismo del fuoco come uno dei più espressivi dell’azione dello Spirito Santo. “Non spegnete lo Spirito” (1Ts 5,19)” (CCC 696)

Elia è un profeta molto particolare nella storia biblica. Compare improvvisamente e di lui non conosciamo null’altro delle scarne notizie che compaiono all’inizio di quello che è chiamato “il ciclo di Elia” e che inizia al cap. 17 del Primo libro dei Re.

La tradizione, a cominciare dalla rilettura della Bibbia stessa, accosta Elia al fuoco, non solo come simbolo del vigore che lo contraddistingue, ma anche a motivo di alcuni episodi della sua vita, come il confronto con i sacerdoti di Baal al monte Carmelo al cap. 18.

 Il Siracide ci dice anche che è la parola stessa di Elia a bruciare come fiaccola. È una parola che brucia ma, contemporaneamente, illumina. Il fuoco dello Spirito arde nelle parole e nel cuore di Elia e lo rende colui che elimina da Israele gli dei falsi, purifica il popolo dall’infedeltà e lo riconduce al vero Dio, il Dio vivente.

È la vicenda personale di Elia, intrecciata con quella del popolo, il luogo in cui lo Spirito si manifesta, ed è attraverso i fatti concreti che Egli lo conduce e lo trasforma interiormente.

Talvolta corriamo il rischio di intendere la vita guidata dallo Spirito, cioè la vita spirituale come avulsa dalla realtà, compiamo una frattura in noi tra la dimensione concreta dell’esistenza in ogni suo aspetto e quella che diciamo spirituale ma che spesso ha il sapore dell’astrazione, della spiritualizzazione, della fuga. Elia ci mostra, invece, l’importanza di entrare nella realtà perché la nostra esperienza sia veramente spirituale. Lo Spirito, infatti, raccoglie ogni frammento della nostra esistenza e lo rende storia sacra, storia di salvezza e di grazia, luogo dell’incontro e della presenza di Cristo.

“Esci e fermati alla presenza del Signore”

Nel momento in cui Elia si presenta, si definisce come colui che sta alla presenza di Dio, del Dio vivo. È sotto il suo sguardo, ne è avvolto, è dentro lo spazio di una relazione personale, di confidenza e intimità con Dio. Elia sta in piedi alla Sua presenza (la Bibbia utilizza un verbo che significa “stare in piedi, in posizione eretta”), nell’atteggiamento del servo, del soldato, che è pronto al comando del suo signore, ma soprattutto emerge la dignità che Dio stesso gli conferisce facendolo stare dinanzi a sé.

È un momento della storia di Israele nel quale Dio è considerato inferiore agli dei, a Baal, tanto da essere stato messo da parte. Per Elia, invece, Dio è Colui di fronte al quale egli sta; è questo il luogo vero della sua vita, da qui trae la sua forza, l’autorevolezza con cui compie il suo ministero profetico.

Elia è profondamente certo di Dio, lo conosce, sa che Dio è vivo e in Lui c’è tutta la potenza della vita, è fuoco, ardore, vigore, il Creatore che tiene tutto nelle sue mani, comanda al cielo e questi Gli obbedisce. Elia non teme il re Acab, perché Dio è dalla sua parte. È così tanto certo di Lui che in due momenti sembra quasi piegarlo alla sua volontà, o meglio, sembra contestare l’operato di Dio e suggerirgli come deve intervenire:

“Quindi invocò il Signore: «Signore mio Dio, forse farai del male a questa vedova che mi ospita, tanto da farle morire il figlio?». Si distese tre volte sul bambino e invocò il Signore: «Signore Dio mio, l’anima del fanciullo torni nel suo corpo». Il Signore ascoltò il grido di Elia; l’anima del bambino tornò nel suo corpo e quegli riprese a vivere”[1].

“Al momento dell’offerta si avvicinò il profeta Elia e disse: «Signore, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo e che ho fatto tutte queste cose per tuo comando. Rispondimi, Signore, rispondimi e questo popolo sappia che tu sei il Signore Dio e che converti il loro cuore!». Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando l’acqua del canaletto”[2].

Elia è colui attraverso il quale Dio vuole ricondurre Israele alla fedeltà all’alleanza, ma c’è anche un’opera che vuole compiere nel suo profeta: lo vuole condurre a una certezza ancora più profonda della Sua presenza, una presenza che riempie davvero ogni spazio della terra e del cuore.

Il cap. 19 segna un momento di crollo nella vita di Elia. È scoraggiato, vuole fuggire da una situazione che lo spaventa. Gezabele, la moglie del re, vuole ucciderlo e lui, che ha scannato i quattrocentocinquanta profeti di Baal, ha paura e scappa nel deserto, cercando la morte. Elia sta facendo esperienza di una debolezza prima sconosciuta: “Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri»”[3].

Ma la presenza di Dio non lo abbandona, lo segue e si prende cura di lui. L’angelo del Signore lo nutre di un cibo che gli dà la forza necessaria per continuare il cammino per quaranta giorni. Ed Elia giunge all’Oreb, dove per due volte gli viene rivolta una domanda: “Che fai qui Elia?”[4]. È una domanda che lo mette di fronte al suo cuore, alla verità della sua sofferenza. Accanto allo zelo per il Signore scopre qualcosa che è, ora, al di sopra delle sue forze: è solo e la sua vita è minacciata.

Questa è la condizione per poter accogliere una nuova modalità di presenza di Dio che giunge a lui come un dono, inaspettato, imprevisto: “Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore”[5]. Quel Signore che aveva conosciuto nella potenza, nella forza, ora lo raggiunge in una voce silenziosa e leggera, in una brezza lieve ed Elia lo riconosce. La familiarità con Dio gli permette di riconoscere la sua presenza anche lì dove non l’avrebbe mai cercata: nella debolezza, nella sofferenza, nell’esperienza dolorosa di una solitudine che fa sentire la propria impotenza e piccolezza. Ma proprio lì Dio lo raggiunge, e si manifesta come il Signore, colui che conosce ogni cosa e si prende cura del suo popolo e del suo servo. È Lui che conduce la storia, non è lo zelo di Elia a salvare Israele.

L’esperienza di Elia ci mostra come anche nella debolezza, in ciò che è per noi scandalo e non motivo di vanto, anche lì Egli è presente, e si mostra. Possiamo vedere davvero tutta la nostra esistenza, in ogni suo aspetto, come il progressivo rivelarsi del volto di Dio, rivelazione mai interamente compiuta, in una conoscenza progressiva, che non si può mai dare per definitiva o, soprattutto, possedere.

È lo scandalo della croce, lo scandalo di un Dio che si manifesta lì dove mai si sarebbe potuto pensare, nella debolezza estrema, nell’impotenza di fronte agli uomini, nella morte più infame. Eppure è proprio in questa debolezza che si manifesta la potenza dell’amore che salva, il volto della misericordia:

“La croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull’uomo e su ciò che l’uomo – specialmente nei momenti difficili e dolorosi – chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell’eterno amore sulle ferite più dolorose dell’esistenza terrena dell’uomo, è il compimento sino alla fine del programma messianico, che Cristo formulò una volta nella sinagoga di Nazaret e ripeté poi dinanzi agli inviati di Giovanni Battista”[6].

Il profeta Elia ci conduce ancora oggi all’incontro con Cristo e cammina con noi sui sentieri della nostra storia, ricordandoci continuamente che la vita è bella, è piena se vissuta in ogni istante, anche nel dolore, nell’aridità, alla presenza amorosa di Dio.

 

[1]1Re 17,20-22.

[2]1Re 18,36-38.

[3]1Re 19,4.

[4]1Re19,9.13.

[5]1Re 19,11.

[6]Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, 8.

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