Lavorare per…

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Vi offriamo una riflessione molto interessante che P. Marco Asselle ofm. ha condiviso con noi il 1° maggio sulla realtà del lavoro.
 
Ringraziamo P. Marco per aver acconsentito a pubblicarla sul nostro sito.
Il Primo maggio – memoria di san Giuseppe lavoratore – è in tutto il mondo la festa del Lavoro (e dei lavoratori). Vogliamo cogliere questa occasione per offrire una breve riflessione su questo tema così importante per la crescita dell’uomo, non solo da un punto di vista economico, ma soprattutto umano e quindi anche spirituale.
Può essere interessante notare come Papa Francesco, nel parlare del lavoro nella sua enciclica sociale Laudato sì, fa riferimento all’aspetto relazionale: «Se cerchiamo di pensare quali siano le relazioni adeguate dell’essere umano con il mondo che lo circonda, emerge la necessità di una corretta concezione del lavoro […]. Qualsiasi forma di lavoro presuppone un’idea sulla relazione che l’essere umano può o deve stabilire con l’altro da sé» (LS. 125).
 
La visione che emerge è che una certa attività può essere definita “lavorativa” solo se è a favore di qualcuno.
In questa prospettiva l’hobby non è lavoro, come non lo è l’attività del bambino che gioca per conto suo. Per contro è lavoro quello della casalinga o del volontario che va a prestare servizio alla Caritas. Ma se un bambino dà vita ad “un’azione per i poveri”, non sta semplicemente giocando, ma svolge pienamente un’attività lavorativa; viceversa quei «padri [che] sono talora così concentrati su sé stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani» – come ricorda Francesco nella sua Amoris Laetitia –  non stanno lavorando.

Si può comprendere facilmente che il “lavorare per” ha molte dimensioni. La prima si riferisce a il “lavorare per colui che ci sta di fronte”, che vediamo, con il quale abbiamo un rapporto diretto, come può essere il cliente o il collega di lavoro. In seconda battuta, c’è anche il “lavorare per lui o per lei” che non vedremo mai magari, e che quindi non lo sapremo neanche riconoscere qualora lo incontrassimo, come potrebbero essere i familiari del nostro collega che godono di vivere con una persona serena perché il suo ambiente lavorativo è piacevole, grazie anche al nostro contributo. Infine, se “lavoriamo per”, lavoriamo anche “per noi stessi”, ma come ritorno, come reciprocità verso Gesù che dice: «ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).

Questa cultura del lavoro richiede che il lavoro sia inserito dentro un contesto più ampio che è quello dell’amore. Ovviamente l’amore è tale solo se fatto nella gratuità. Con questo termine intendiamo qui quell’atteggiamento interiore che porta ad accostarsi ad ogni persona, ad ogni essere, a se stessi, sapendo che quella persona, quell’essere vivente, quell’attività, me stesso, non sono cose da usare, ma con le quali entrare in rapporto rispettandole e amandole.

Per poter vivere questa realtà è fondamentale coltivare il “riposo” inteso «come giorno del risanamento delle relazioni dell’essere umano con Dio, con sé stessi, con gli altri e con il mondo», come ricorda il Papa nella Laudato sì.

Oggi i confini tra i tempi e gli spazi lavorativi e il resto della giornata sono molto labili per un numero crescente di tipologie occupazionali; se qualche anno addietro l’invadenza del lavoro nella vita personale era relegata al “portarsi a casa il lavoro”, oggi il lavoro “si porta ovunque”: bastano uno smartphone e una buona connessione perché telefonate, email, videoconferenze e documenti condivisi e facilmente accessibili ci fac­ciano potenzialmente lavorare 24 ore al giorno, così come d’altro canto possono farci rimanere in contatto con vicende familiari o personali (ricevere in diretta i voti dei figli a scuola o i referti di esami clinici). Se tutto questo può essere vantaggioso, la de­bolezza dei confini tra lavoro e “altro” chiama in causa la dimensione personale e familiare.

Come sottolinea il Pontefice, richiamandosi alla relazione finale del Sinodo dei Vescovi del 2015, «le giornate lavorative sono lunghe e spesso appesantite da lunghi tempi di trasferta. Questo non aiuta i familiari a ritrovarsi tra loro e con i figli, in modo da alimentare quotidianamente le loro relazioni».
Un primo esercizio di equilibrio tra i tempi di lavoro e quelli dedicati alla famiglia e al rapporto con Dio è governare il proprio tempo. Qualunque esperienza umana è per sua natura limitata; così quella del lavoro – seppure essenziale per la sussistenza – non può occupare l’intera giornata regolarmente e quotidianamente, inva­dendo ogni spazio fisico e mentale, consumando energie intellettive e psicologiche con il rischio di compromettere il proprio equilibrio interiore e fisico, oltre che le relazioni con chi ci sta accanto.
Il governo del proprio tempo, affinché ciascuna esperienza di vita possa avere uno spazio appropriato, presuppone un inve­stimento iniziale, quello del tempo per sé, non in un’ottica ego­centrica, ma come prerequisito per mettere nel giusto ordine di pri­orità quanto si vive.

Sia la tradizione della spiritualità, sia l’indagine psicologica sottolineano che non c’è cammino di crescita se non a partire dalla consapevolezza di sé: ascoltare e studiare il proprio cuore, nel concreto delle proprie vicende relazionali, è via maestra per trovare se stessi.

La cura di questa consapevolezza è da rinnovare costantemente giorno dopo giorno, non può essere data per acquisita una volta per tutte e necessita di un periodo di apprendimento e di costante pratica che dura, potenzialmente, tutta la vita.
 
Regolare i tempi e gli spazi personali, familiari, di lavoro o di qualunque altra attività sociale si svolga ed evitare che ciascuno di questi ambiti venga assolutizzato consente un’armoniosa crescita verso l’integrale maturità umana.

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