P. Cesare Vaiani
Se è vero che la povertà caratterizza Francesco d’Assisi, è bene notare che l’essere «senza nulla di proprio» verso Dio e verso i fratelli non è fine a se stesso e non può rimanere una sterile rinuncia, ma fiorisce e si mostra fecondo nella restituzione.
La restituzione cui Francesco invita si dirige al Dio Altissimo e si fonda sul riconoscimento che da lui tutto proviene. Il restituire infatti è preceduto dal riconoscere, la restituzione nasce dalla riconoscenza: e non a caso il sostantivo riconoscenza rimanda al conoscere. Si tratta di una catena che prende l’avvio dal conoscere e riconoscere, passa attraverso la riconoscenza e giunge così alla restituzione. È anche simpatico e significativo notare che lo stretto legame esistente nella lingua italiana tra riconoscere e riconoscenza mostra che il riconoscere non può restare un fatto puramente razionale, un affare dell’intelletto che riconosce la verità, ma deve subito diventare riconoscenza, implicando un movimento del cuore, cioè di tutta la persona, che coinvolge affetti e sentimenti, in questo caso gratitudine e senso di benevolenza. Se il conoscere non genera riconoscenza, direbbe Francesco, ha fallito il suo scopo.
Tale atteggiamento può essere descritto come una reazione, più che una azione, come un movimento in seconda battuta, che segue alla percezione della prima e ben più importante iniziativa di Dio. Soltanto chi ha conosciuto e si è accorto di quanto grandi siano i beni che gli provengono da Dio sente nascere in sé l’esigenza riconoscente di rispondere a quel dono; tale risposta non sarà null’altro che l’offerta di quelle medesime realtà, che ha scoperto essere dono di Dio. Nel linguaggio degli Scritti di Francesco, quel conoscere iniziale, da cui la riconoscenza trae origine, viene indicato con l’espressione “avere lo Spirito del Signore”: chi è animato dallo Spirito ha occhi spirituali che gli permettono di vedere e credere, cioè di leggere la vita e la realtà come segno di Dio, e così riconoscere che da Dio proviene ogni bene, perché «Dio è ogni bene, il sommo bene, tutto il bene, ed Egli solo è buono» (Lore 11: FF 265). Da questo fondamento, che è la fede, intesa come riconoscimento di Dio, nasce l’intuizione tipica di Francesco, che proprio per non volersi appropriare dei beni ricevuti dal Signore sa di doverli restituire; e la parola «rendere» è una delle parole tipiche del vocabolario di Francesco, in un contesto di lode e di ringraziamento.«Beato il servo che restituisce tutti i suoi beni al Signore Iddio, perché chi riterrà qualche cosa per sé, nasconde dentro di sé il denaro del Signore suo Dio, e gli sarà tolto ciò che credeva di possedere» (Am 18,2: FF 168).
È evidente il collegamento tra la riconoscenza/restituzione e l’essere povero: chi non restituisce si appropria del «denaro del Signore suo Dio», con una immagine che rimanda alla parabola evangelica dei talenti (Cfr Mt 25,18). Quella parabola, evocata da Francesco, mostra bene infatti il legame tra il riconoscere i doni di Dio (i diversi talenti ricevuti dai servi alla partenza del padrone) e l’impegno a trafficarli, senza appropriarsene o nasconderli sotto terra, per poterli restituire con grata riconoscenza al padrone, al suo ritorno.
D’altro canto, non si tratta di una esperienza speciale di Francesco, bensì di una dinamica vera per ogni cristiano: se, come dice il quarto Vangelo, «in principio era il Verbo», ogni altra parola od azione, ogni altra realtà risulta essere risposta a quella Parola che sta in principio.
Anche Francesco può restituire tutto a Dio perché prima «conosce» i benefici di Dio nella storia della propria vita: si pensi al Testamento, splendido documento di questa attitudine riconoscente, che è quasi ritmato dalla ripetuta affermazione «Il Signore mi diede…», esprimendo così quel riconoscimento dell’azione di Dio e quella riconoscenza che sta alla base di ogni restituzione.
Un tale atteggiamento trova una splendida sintesi nel capitolo 17 della Regola non bollata, dove troviamo l’invito più caldo e cordiale alla restituzione di ogni bene al Signore: