Articolo di P. Adalberto Piovano osb. Pubblicato su Forma Sororum n. 258
Con ogni probabilità, uno degli atteggiamenti più difficili per l’uomo d’oggi è quello dell’attesa. In un mondo in cui tutto è veloce, in cui ogni bisogno è allo stesso tempo suscitato e soddisfatto immediatamente, ogni spazio di attesa desta insofferenza e disagio. E di fatto non si sa più attendere. Ma d’altra parte, dobbiamo riconoscerlo per esperienza, solo nell’attesa può maturare ogni vero desiderio, perché in questo tempo apparentemente inutile e improduttivo si attua una reale purificazione del nostro cuore e lo sguardo interiore acquista limpidità e concentrazione. Solo dopo lunga attesa si può aver chiaro chi è l’oggetto del nostro desiderio. Cresce allora l’intensità e la passione che aprono tutta la vita all’incontro con ciò che ardentemente e dolorosamente si è atteso.
Credo che il tempo liturgico dell’Avvento richiami alla nostra vita di credenti proprio questa misteriosa dinamica, nascosta nella realtà stessa di ogni desiderio. Ma in questo caso, ciò che si desidera è anche ciò che è al cuore della nostra stessa vita di credenti: l’incontro con il Signore Gesù.
Forse il cristiano d’oggi, cosi impegnato a portare il suo contributo e la sua testimonianza di credente nella costruzione della città dell’uomo, rischia di dimenticare che la sua esistenza è chiamata ad essere anzitutto il segno di una realtà, di un compimento che sono al di là della nostra storia. Noi siamo chiamati a vivere nell’attesa della venuta di Colui che porta a pienezza ogni cosa; i cieli nuovi e la terra nuova che il Signore ha promesso non sono un miraggio lontano e estraneo al nostro mondo. Sono una realtà da attendere con tensione. Ed è compito dei credenti seminare nei solchi di questa nostra terra il desiderio di questa attesa.
L’uomo desidera creare un mondo perfetto, in cui sono eliminati tutti gli scarti e le contraddizioni che la storia continuamente presenta. Se è certamente un impegno di ogni uomo combattere ed eliminare tutto ciò che minaccia l’esistenza e la dignità delle persone e cercare sempre migliori condizioni di vita, resta tuttavia sottile la tentazione di costruire una città dell’uomo perfetta, un progetto simile alla torre biblica, cioè la pretesa di una completezza che unisce. A volte anche i cristiani sono tentati da questa logica. Spesso l’impressione che suscita una certa modalità ecclesiale di presenza nella storia, è quella di una eccessiva preoccupazione di colmare, attraverso strutture, impegni, opere, ecc…, quegli spazi del tempo e della storia che si percepiscono come vuoti. Sembra che si abbia paura delle attese di cui è disseminata la storia; il non poter intervenire è considerato fuga ed irresponsabilità! SÌ dimentica che l’attesa non è spazio vuoto, ma relazione con il Veniente; essa diventa, per il credente, capacità di andare oltre a quello che si fa, liberandosi dalla preoccupazione di riempire gli spazi che la storia offre con le opere e impegnandosi a calare in essa il senso di una incompiutezza, di un cammino verso quella pienezza donata nell’incontro con il Veniente. Scrive il teologo J.B. Metz: «Siamo uomini dell’Avvento, che hanno nel cuore l’urgenza della venuta di Cristo, e con gli occhi spiano, cercando negli orizzonti della propria vita, il suo volto albeggiante? Diamo realmente all’“Avvento” di Dio ancora un “futuro”? O non abbiamo segretamente relegato Dio nel ghetto di un mero passato? [….] “Egli ritornerà”: abbiamo degradato questa realtà a un lontano episodio di una fine non esperibile’ di cui niente sappiamo o vogliamo sapere, salvo che noi, nel nostro tempo, ne siamo ancora lontani e senza pericolo. Penetra ancora nel nostro cuore qualche cosa dei lampi del Dio che si avvicina, di fronte a cui il cristianesimo primitivo stava a testa alta?».
Stare a testa alta come colui che scruta l’orizzonte e attende un segno, e levare il capo e lo sguardo come colui che desidera incontrare il Veniente: non è forse questo l’invito che risuona all’inizio dell’Avvento? «Con la vostra pazienza salverete le vostre anime… alzatevi e levate il capo… per stare in piedi davanti al Figlio dell’uomo» (cf. Le 21): questo è l’invito che Gesti rivolge a noi credenti per vivere nella storia “nell’attesa della sua venuta”. Ma in queste parole di Gesù., abbiamo anche la dinamica di quella virtù che nutre e rende viva l’attesa, cioè la virtù della speranza, quel faticoso cammino interiore che trasforma la vita del credente in spazio aperto, pronto all’incontro con il Veniente. È tuttavia necessario percorrere ogni tappa di questo cammino per radicare la speranza nella propria vita, trasformarla in stile che dà spessore alle relazioni e strappa l’esistenza al ripiegamento su di sé. Colui che dispera, si nega, perde la sua coesione interiore, abdica dalla vita; il disperato è colui che non “alza il capo”, cioè non sa assumere la dignità propria dell’uomo.
Nella parola di Gesù abbiamo tre volti della speranza, tre spazi che in progressione aprono all’incontro con il volto di Colui che è la nostra speranza. Anzitutto la speranza permette di discernere la verità del tempo dell’attesa. È nella pazienza (nel senso etimologico del termine greco, “stare sotto un peso”) che l’uomo può custodire integra e vera la propria vita; ma è la speranza a rendere l’attesa paziente tempo di discernimento, durante il quale, nonostante le contraddizioni (i colpi che tendono a spostarci e a far cambiare posizione), è possibile mettere a fuoco ciò che è veramente essenziale («le mie parole non passeranno», dice Gesù). Chi sa dimorare nella pazienza, custodendo vigile la speranza, ha la forza di riprendere la posizione eretta, vincendo cosi ogni tentazione di ripiegamento. E questo è possibile perché all’orizzonte della propria esistenza, della storia (nonostante i segni contrari) scorge l’approssimarsi di Colui che viene. Se si è conservato sempre vigile lo sguardo del cuore sul volto luminoso del Risorto, allora si saprà riconoscerlo quando egli viene a liberarci. Veramente la speranza rende vigile la nostra vita, custodisce agile il nostro cuore, ravvivando in esso il continuo desiderio dell’incontro con il Veniente. «State attenti – avverte il Signore Gesù – che i vostri cuori non si appesantiscano» {Le 21,34). Un cuore non abitato dalla speranza diventa pesante, ingombro di tante presenze che lo stordiscono. Un cuore appesantito farà fatica a discernere ciò che è essenziale da ciò che è superfluo, ciò che è buono da ciò che è cattivo: sarà condizionato da tanti bisogni, incapace di grandi desideri. Un cuore così piomba in un dormiveglia spirituale che toglie agilità e vivacità alla vita e la rende dimissionaria: una vita al di qua delle proprie possibilità, che si trascina nella paura e nella banalità, superficiale e pigra, senza passione, e in fondo senza vie d’uscita. Una vita disperata.
Solo se un cuore è custodito dalla speranza, solo se ha orizzonti che vanno al di là dell’immediato e dello scontato, allora sa vivere pienamente nel tempo della propria storia senza però lasciarsi catturare da esso. Un cuore così è un cuore che «appartiene all’eternità». Dice D. Bonhoeffer in un sermone:
«Dio ti ha posto nel mondo: è in esso, al cuore stesso della caducità, che tu devi fare la volontà di Dio. Rallegrati di ciò di cui puoi rallegrarti, ma non attaccare il tuo cuore al mondo; il tuo cuore appartiene all’eternità, appartiene a Dio. Se il mondo reclama il tuo cuore, allora dichiara guerra al mondo; ma se reclama la tua forza, il tuo aiuto, la tua vita, daglieli, per quanto è in te: così da uomo di morte diventerai uomo di eternità».
Testimoniare la speranza in un mondo che porta i segni della disperazione, è proprio questo: diventare uomini di eternità in mezzo ad ogni situazione di morte.