XXVI Domenica Tempo Ordinario anno A
La versione CEI del 2008, rispetto alla precedente, segue i codici più importanti e i padri della Chiesa, e ci presenta così invertito l’ordine delle risposte dei due figli: prima viene il figlio che dice di no e poi si pente; dopo viene quello che dice di sì ma poi non obbedisce, così che il figlio obbediente è il primo e non il secondo.
La versione del 1978 seguiva il codice Vaticano, influenzato dall’identificazione dei due figli con Israele – il primo – e i pagani – gli ultimi ma i veri obbedienti. Sembra però che l’intento di Gesù non sia questo, egli si riferisce piuttosto a una distinzione all’interno dello stesso popolo ebraico, di chi lo ascolta e, in ultima analisi, descrive un percorso interiore che appartiene a ciascuno di noi.
Siamo al cap. 21, in prossimità della Pasqua, Gesù è all’ultima tappa del suo cammino; entrato a Gerusalemme e accolto dalla folla osannante, si reca al tempio e scaccia i venditori, suscitando la reazione dei capi dei sacerdoti e degli anziani che pongono la questione sulla sua autorità. Qui Matteo inserisce la parabola dei due figli (assente in Mc e Lc), la prima delle tre parabole “familiari” (la seconda è quella dei vignaioli omicidi e la terza è il banchetto delle nozze del figlio del re). In questa trilogia emerge la centralità di Dio e il ruolo positivo e negativo dei diversi personaggi.
Con la domanda iniziale Gesù interpella e coinvolge l’uditorio sin dall’inizio. Non è un semplice racconto; richiede a coloro che ascoltano di prendere posizione, smascherando così non tanto il loro atteggiamento esteriore, quanto soprattutto quello interiore che li aveva portati a non rispondere durante la discussione sulla sua autorità.
Il padre si rivolge a entrambi con l’appellativo affettuoso figlio. Il primo risponde con un rifiuto, al quale il padre non reagisce; il secondo (è insignificante se il primo sia il maggiore e il secondo il minore) risponde in modo enfatico, letteralmente dice “Io, signore”, espressione che dice disponibilità, prontezza nell’eseguire, ma in realtà a tale risposta non corrisponderà la realtà, in quanto proprio lui non andrà nella vigna. È anche da sottolineare il fatto che usa l’appellativo signore, e non padre.
In questa parte è messa in luce l’iniziativa di Dio che chiama l’uomo rivolgendosi a lui come a un figlio, e la risposta dell’uomo, la cui prima reazione non è definitiva, essa può cambiare, può aprirsi alla disponibilità, così come anche può chiudersi. In questo caso la parabola diventa un monito, un avvertimento: la salvezza offerta attende la nostra risposta.
Ma Matteo ci dice anche che nessuno – nè il primo nè il secondo figlio – è capace di un’obbedienza pronta alla volontà del Padre. Ciò che rende possibile l’obbedienza è il pentimento, che riveste qui un ruolo fondamentale. Il verbo pentirsi utilizzato da Matteo si riscontra in pochi passi: qui, in Mt 27,3 (quando Giuda vede che Gesù è condannato, prova rimorso, si pente), 2 Cor 7,8 e Ebr 7,21; come aggettivo lo troviamo in Rom 11,29 e 2 Cor 7,10. È diverso da convertirsi, che indica un cambiamento di idee in generale riguardo a una certa situazione, a un peccato in particolare, cambiamento di opinione. Il nostro verbo, invece, è in relazione con melein che significa mi sta a cuore, ho interesse, ed esprime cambiamento del sentimento, sentire rincrescimento. Mentre Dio non cambia, non si pente, non viene meno alla sua parola (Rm li,29), l’uomo ha bisogno di attraversare il pentimento per aprirsi a Dio che è Padre, per accogliere la sua misericordia. L’obbedienza che il Signore qui presenta è caratterizzata da una profonda unità tra gli atteggiamenti interiori ed esteriori, possibile solo quando è il cuore a muoversi, a coinvolgersi, attraverso il pentimento di chi riconosce di non essere capace di giustizia. Il giusto, allora, non è colui che si fa forte di un’osservanza, ma chi è capace di mettersi in cammino uscendo, compiendo un esodo dalle proprie sicurezze e comodità, dal proprio sentire, per aderire a Dio, per fare la sua volontà il cui cuore è credere nel Figlio.
È il passaggio pasquale di chi, immerso con Cristo nel battesimo e cioè nella volontà del Padre, si lascia rinnovare da questa grazia che continuamente lo rende nuova creatura, lo rende figlio.