Con il cuore dei piccoli

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XIV dom. T.O. – Mt 11,25-30
 
Il passaggio dal Vangelo di domenica scorsa al brano di questa domenica è piuttosto brusco. La liturgia, infatti, ci fa fare un salto di ben 25 versetti, dando quasi l’impressione che le parole pronunciate da Gesù seguano immediatamente il discorso missionario. In realtà fra i due brani si pongono episodi importanti che vedono Gesù parlare di Giovanni Battista e delle città che non lo hanno riconosciuto, tra queste la stessa Cafarnao, che l’evangelista al cap. 9,1 definisce “la sua città”, la città di Gesù.
È soprattutto quest’ultima pericope (11,20-24) a creare il contesto nel quale le parole di benedizione e di lode di questa domenica risuonano con particolare intensità. Si stanno, infatti, contrapponendo atteggiamenti diversi di fronte alla persona di Gesù: rifiuto, resistenza di fronte all’annuncio del Vangelo, all’invito alla conversione e, nel brano di oggi, la lode di chi ha fatto spazio alla visita del Figlio di Dio, la accolto con semplicità, con umiltà, si è lasciato incontrare e salvare.
Anche se nel testo l’introduzione “In quel tempo” segna un nuovo passaggio di narrazione, leggendo di seguito i brani si respira una continuità: diciamo che è come in un brano musicale, dove c’è un passaggio di tonalità che segna una nuova linea melodica, nella continuità però con la musica precedente. Novità nella continuità del brano. È ciò che avviene nel brano odierno: c’è rifiuto, opposizione, resistenza, ma c’è chi accoglie, fa spazio, si decide per Lui.
Sono parole che sembrano sgorgare dal cuore pieno di gioia di Gesù: anche nell’amarezza per il rifiuto, la gioia non viene meno in Lui, è la gioia dell’amore che nulla può intaccare, l’amore del Padre, l’amore che circola nella Trinità e che è venuto a portare sulla terra. Colpisce, infatti, che in contesto così ostile siano pronunciate parole così belle di lode. È la lode rivolta al Padre, lode che è innanzitutto una confessione: l’invocazione tradotta in italiano con “Ti rendo lode” significa più propriamente “ti confesso”, ha cioè il senso di un riconoscimento pubblico (è utilizzato solo un’altra volta nel vangelo di Matteo, al cap. 3,6 quando i peccatori vanno da Giovanni Battista e confessano i loro peccati).
Confessare cioè dichiarare apertamente le opere del Padre significa rendergli lode, ma di quali opere si tratta? Non ci sono state, nei versetti precedenti, racconti di guarigioni, di prodigi, di successi da parte di Gesù, la sua lode è infatti rivolta al Padre perché dentro tanto rifiuto, c’è chi accoglie la sua Parola, la salvezza. Perché la sua Parola si fa strada nei cuori degli umili, dei piccoli, di coloro che come bambini accolgono la Rivelazione, si fidano di Gesù, si fidano del Padre: intelligenti, dotti, piccoli sono atteggiamenti del cuore più che categorie di persone, e tutti possiamo essere in alcuni momenti piccoli oppure crederci più sapienti di Dio stesso e chiuderci alla rivelazione del suo amore, soprattutto quando questo si manifesta nella croce.
Il piccolo del vangelo è colui che non smette di essere discepolo, come Gesù riafferma nei vv. 28-29, che sono un vero e proprio percorso di sequela.
“Abbiamo innanzitutto la chiamata: “Venite a me”; quindi la necessaria rinuncia alla volontà propria per obbedire alla volontà del Signore (“prendete il mio giogo”)…. Quindi c’è l’attitudine discepolare, l’obbedienza del discepolo al suo maestro e Signore (“Imparate da me”) e infine il riposo, la pienezza di vita trovata nel Signore (“troverete ristoro per la vostra vita”).
Il “giogo” di Gesù non designa dettami religiosi o comandi da eseguire, ma una relazione, un legame, onorando così l’etimologia della parola che designa l’azione di “riunire”, “mettere insieme”. Il giogo di Gesù leggero e soave è continuità con il comando biblico di amare e con l’idea che colui che ama fa con gioia la volontà dell’amato.”  (Eucaristia e Parola, Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, pag. 42-43).
Il giogo di Gesù non è, appunto, un peso che toglie vita, ma è forza nella fatica, è consolazione nella sofferenza, coraggio nelle tribolazioni: non è un peso in più da portare, ma è la condivisione con Lui del peso dell’esistenza. Abbiamo visto già la scorsa settimana che per seguire Gesù è necessaria una scelta: anche questa domenica ci troviamo di fronte alla provocazione della nostra libertà. Il giogo di Gesù va assunto, Gesù ci chiama, ma è necessaria la risposta di adesione a Lui, andare a Lui, imparare da Lui, riconoscerlo come il solo Maestro che possiede la chiave ermeneutica, di comprensione della vita. Solo Lui ci può svelare il senso dei nostri giorni: imparate da me che sono mite e umile di cuore… È così che Gesù presente, propone e, in un certo senso, impone se stesso: non con la forza, non con l’apparenza, ma con la mitezza, con l’umiltà, con l’abbassarsi e il farsi servo. Imparare la mitezza e l’umiltà, quanto ne abbiamo bisogno! Quanto ne ha bisogno il nostro mondo, dove sembra che solo la forza, il predominio valgano veramente qualcosa! Quanta violenza c’è nel nostro quotidiano, come se ciascuno si potesse arrogare il diritto di decidere della vita degli altri, dimenticando di essere non padroni dell’esistenza, ma oggetto continuo di un dono ricevuto. L’umiltà è il contrario del gesto di Eva di stendere la mano per prendere il frutto: l’umile è chi sta con le mani aperte, attende, certo che il Signore le riempirà con abbondanza, con una misura traboccante come è ogni suo dono. L’umile è consapevole di essere senza soluzione di continuità sotto lo sguardo amoroso di Dio, l’umile sa che la sua vita è preziosa per Colui che l’ha creata, ed è Lui che la difende, la promuove, la conduce.
Impariamo da Gesù, che riconosce i doni di Dio, si affida al Padre sempre, in ogni istante, e continuamente riceve tutto da Lui. Impariamo da Gesù e affidiamo a Lui i nostri pesi, per prendere il suo unico peso: il giogo dell’amore, il giogo della vita donata, il giogo che ci lega a Lui e gli uni agli altri in una comunione che nulla può spezzare.
Affidiamo a Lui le preoccupazioni, le sofferenze, e lasciamole trasformare in giogo di ristoro, di vita.
 
Clarisse Monteluce S. Erminio

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