Vieni, dolce Signore…

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 5 Aprile 2020 – Domenica delle Palme

“Attraverso l’itinerario spirituale della Quaresima i tuoi fedeli giungano completamente rinnovati a celebrare la Pasqua del tuo Figlio”
 
Con queste parole la liturgia ci ha introdotti nel cammino della Quaresima, mostrandoci la strada e la meta. Abbiamo iniziato il cammino il mercoledì delle Ceneri, mentre stava iniziando a dilagare, implacabile, l’epidemia che ancora ci sta affliggendo. Una Quaresima dove “l’itinerario spirituale” è stato imprevisto e imprevedibile, ci ha sorpresi, disorientati, costretti a un digiuno che mai ci era accaduto di vivere: quello eucaristico, quello della comunità radunata. E così dovremo vivere anche la Settimana santa, il Triduo Pasquale, la Pasqua di Resurrezione:

 “Per ogni fedele questa situazione costituisce una amara esperienza di autentico ‘digiuno’: egli deve infatti rinunciare ad accostarsi alla mensa eucaristica e a condividere con gli altri fratelli e sorelle questo momento essenziale e costitutivo della vita cristiana”. (Nota dei Vescovi umbri circa le celebrazioni eucaristiche in tempo di Coronavirus)

 Un digiuno doloroso, che potrebbe dare il sapore di una perdita, di un “di meno” che non può essere recuperato. Sempre nella nota sopra citata leggiamo:

 “Le diverse liturgie che – nel rispetto delle norme di sicurezza stabilite dalla competente autorità – si terranno nelle chiese Cattedrali e nelle parrocchie saranno comunque e sempre a nome e a beneficio di tutto il popolo fedele, raccolto idealmente attorno all’altare per il mistero della comunione dei santi”.

 E più oltre, al n. 4:

 “La liturgia è un’azione comunitaria, ma quando si parla di comunità e di comunione si deve avere la consapevolezza che essa va al di là dei confini visibili; è una comunione di grazia che unisce sempre realmente tutti i battezzati nell’unico corpo mistico di Cristo. Ciò significa che i fedeli sono inclusi in ogni celebrazione eucaristica, alla quale si possono unire spiritualmente pur non essendo visibilmente presenti. È bello ricordare cosa fece P. Theilhard de Chardin quando, nel deserto di Ordos in Cina nel 1923, nel giorno della Trasfigurazione, trovandosi senza pane e senza vino, celebrò “la Messa sul mondo”, presentando a Dio la storia dell’universo come una grande oblazione che, per mezzo di Cristo nello Spirito, sale al Padre: «Poiché … sono senza pane, senza vino, senza altare, mi eleverò al di sopra dei simboli alla pura maestà del reale, e ti offrirò, io tuo sacerdote, sull’altare della terra totale, il lavoro e la pena del mondo» (“La Messa sul mondo”», in Inno dell’universo, Brescia 1992, p. 9). Il “digiuno eucaristico” a cui i fedeli sono costretti in questo momento diventa un’opportunità per educarsi a fare di tutta la propria esistenza un’offerta vivente a Dio, secondo quel “culto spirituale” tanto raccomandato da San Paolo (cf Rm 12, 1-2), e costituisce un’occasione preziosa per riscoprire la bellezza e la grandezza di potersi comunicare, non appena sarà possibile, al corpo e sangue del Signore Gesù. La Messa che i sacerdoti celebrano ogni giorno da soli, non senza una loro grande sofferenza per l’assenza dei fedeli, rappresenta un segno di comunione soprannaturale di tutta la Chiesa e dice “in atto” come i battezzati siano chiamati a farsi «pietre vive, costituiti come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo» (1Pt 2, 4-5)”.

Un’assenza che, in realtà, richiama e dice una diversa presenza. Un’assenza che non diminuisce la reale comunione, ma anzi questa diventa il tesoro cui attingere per partecipare alla grazia delle celebrazioni che sono sempre per il popolo, per i fedeli, per ciascuno di noi, di voi.
Una diversa partecipazione cui siamo chiamati in questo tempo, non per un di meno, non per diminuire la nostra preghiera, ma per rispondere alla necessità di una storia che impone le sue regole. Anzi, il santo Padre, all’Angelus del 22 marzo, disse:

 “Alla pandemia del virus vogliamo rispondere con la universalità della preghiera, della compassione, della tenerezza. Rimaniamo uniti. Facciamo sentire la nostra vicinanza alle persone più sole e più provate. La nostra vicinanza ai medici, agli operatori sanitari, infermieri e infermiere, volontari… La nostra vicinanza alle autorità che devono prendere misure dure, ma per il bene nostro.(…) Vicinanza a tutti”.

Non distanza, ma vicinanza, non assenza di preghiera, di celebrazioni, ma universalità di preghiera, compassione, tenerezza.
 
Entriamo, allora, nella Settimana santa come popolo, come in realtà siamo, unito e compatto. Accogliamo oggi il Signore Gesù che entra nella nostra Gerusalemme. Accogliamolo con tutta la nostra povertà, il grido che abita il nostro cuore, sapendo che solo Lui è il vero Salvatore, l’unico che può trarre dal dolore che ci circonda e ci abita, la vita, la vita vera. Per questo possiamo celebrare nella gioia e nella speranza anche questa Pasqua. La morte, la nostra morte, la morte solitaria e umanamente assurda di tanti nostri fratelli e sorelle di questo tempo di epidemia è già stata raccolta dentro la Sua morte. Può capitare di pensare che Gesù non ha sofferto, non ha vissuto il dramma che sta riempiendo i nostri giorni. Ma forse dimentichiamo che noi non conosciamo davvero fino in fondo il dramma che Lui ha vissuto, cosa ha significato e comportato per Lui morire e morire così. Morire innocente non solo a causa dei nostri peccati, ma anche caricandoseli, tutti, non c’è un peccato, uno solo, nel mondo che non sia stato portato sulle spalle del Redentore, che non sia stato preso e sofferto da Lui. Se non fosse così, se non tutto fosse effettivamente caduto su di Lui, allora non ci sarebbe davvero la salvezza, perché qualcosa ne rimarrebbe fuori. Invece no, tutto il male, tutta la morte ingiusta e terribile di questi giorni, tutto è stato da Lui assunto, preso, sofferto, redento, liberato, trasformato per noi in vita.

Nella liturgia della Domenica delle Palme leggiamo il Vangelo della Passione secondo Matteo. Un Vangelo affollato, pieno di personaggi che ruotano intorno alla persona di Gesù, con sentimenti, intenti, atteggiamenti differenti. Ma tutti concorrono a consumare la sua morte, quella consegna libera che Gesù fa di se stesso. Fin dall’inizio del Vangelo si staglia l’ombra della Passione: la strage degli Innocenti che solo Matteo ci narra introduce subito nella persecuzione che circonda la persona di Gesù. Una persecuzione che nasce dalla paura di perdere il potere, dal cuore umano torbido e menzognero che vuole eliminare chi sente come un pericolo per sé, per le proprie sicurezze, per le proprie credenze. Persecuzione rivestita di nobili motivi: ti sei fatto Figlio di Dio, per questo ti vogliamo uccidere, perché bestemmi!

Persecuzione che acceca, e lo abbiamo visto nella domenica del cieco nato, secondo il Vangelo di Giovanni, e impedisce di riconoscere l’opera di Dio. Uccidere Gesù: sarà un tema centrale della liturgia della Settimana  Santa. Seguiremo passo passo gli ultimi dettagli di questo grande progetto umano, le limature che portano a definire come, quando e quanto per eliminarlo: 30 denari. Nulla. Questa domenica la liturgia, pur nella situazione in cui ci troviamo – i testi sono a disposizione e possono essere letti, meditati, diventare preghiera – ci fa vivere un clima di luce e di buio: la luce dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, accolto dalla folla festante, e il buio della Passione, l’ora delle tenebre, l’ora terribile in cui tutto sembra finire. Tutto sembra fallire. È un giorno davvero particolare questa domenica, e forse mai come quest’anno la liturgia incontra la realtà della vita non solo personale, ma ormai mondiale: luce di speranza, luce di guarigioni, luce di possibilità che pian piano si fanno strada, ma anche buio di tante vittime che ancora ogni giorno ci lasciano, buio di tanti ammalati, buio di chi non rispetta le limitazioni diventando pericolo per altri oltre che per sé, buio di un’economia che sta soffrendo molto e paventa all’orizzonte una nuova povertà… Ma la luce più piena che sta brillando in questa oscurità è quella dell’umanità di tutti coloro che in mille diversi modi si fanno prossimi. Buio e luce, che stanno facendo risaltare tutta la bellezza dell’umanità quando si prende davvero cura dell’altro: nelle tenebre, la luce dell’amore. È quello che ci apprestiamo a vivere: nelle tenebre del male, la luce dell’amore di Cristo, che si è dato per noi fino in fondo, senza trattenere nulla di sé e per sé.
 
È questa la nostra speranza, è l’unica speranza.

 Clarisse S. Maria di Monteluce in S. Erminio

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