
«Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1). Inizia così il brano del Vangelo che la Chiesa ci fa leggere in questa XXIX domenica del Tempo Ordinario.
Una parola rivolta non ai monaci o alle monache, non ai religiosi o alle religiose, ma a tutti i discepoli, a tutti i battezzati. La necessità di pregare sempre, senza stancarsi è per tutti, è la condizione ineludibile perché la fede, di cui i Vangeli di queste domeniche ci stanno parlando, possa rimanere salda fino alla fine, è il respiro del cristiano.
Nei nostri innumerevoli impegni quotidiani, che la vita stessa ci impone, come è possibile pregare sempre? E soprattutto, come è possibile pregare senza stancarsi? La preghiera è forse una “prova di resistenza”?
Gesù vuole oggi rispondere a questi interrogativi e lo fa attraverso una piccola parabola in cui vede come protagonisti una vedova e un giudice. Le vedove erano, nella cultura dell’epoca, la classe sociale più indifesa e spesso povera, perché erano prive di un marito che desse loro una consistenza sociale. Erano le persone più spesso sottoposte a soprusi e ridotte in uno stato di povertà estrema. I giudici, al contrario erano le persone che più avevano potere di giudizio e di arbitrio sulle questioni che venivano loro sottoposte e che quindi spesso facevano valere il loro potere trovando il modo di approfittarne economicamente. Gesù ci propone, quindi, le due categorie agli estremi dello stato sociale dell’epoca.
Nella parabola, una di queste vedove è costretta, dalle circostanze, a dover chiedere giustizia a uno di questi giudici, che per di più viene descritto come “disonesto”, un uomo attento solo ai propri interessi personali. La vedova non ha, nei confronti del giudice, alcun “potere contrattuale” e si trova a non essere ascoltata, a non essere neppure presa in considerazione.
Questa povera vedova ha però una sua “arma”: il suo estremo bisogno, per cui non può lasciare che il giudice non si curi di lei, ma in forza di questa urgente necessità, continua a presentarsi per chiedere giustizia nei confronti del suo avversario. E questa insistenza è ciò che “vince” il disinteresse del giudice, fino a farlo cedere e a occuparsi di questa causa per fare giustizia.
Con questa parabola Gesù spiega cosa significa «pregare sempre, senza stancarsi». La preghiera incessante, non è, come si diceva prima, “una prova di resistenza” misurabile in tempo trascorso a dire preghiere. La preghiera incessante è figlia dell’estrema povertà umana che dal profondo grida incessantemente il suo bisogno e il suo desiderio, perché sa che solo Dio può «fare giustizia contro il proprio avversario», il male che ci opprime, in tutte le sue forme.
Questo dono della salvezza è infinitamente più grande delle nostre piccole e quotidiane richieste (che pure sono in esso raccolte e non trascurate) e proprio questo sarà sicuramente elargito da Dio. Dice a questo proposito S. Agostino:
Dio, il Padre, non solo vuole e desidera esaudire il nostro desiderio, ma lo esaudisce «subito», ci dice Gesù, anche se tante volte a noi sembra che le nostre richieste non vengano ascoltate secondo il nostro desiderio. Eppure certamente nessuna domanda rivolta a Dio rimane inesaudita, tutto Egli accoglie e ascolta e in tutto Egli opera quotidianamente per il nostro massimo bene.
Possiamo capire allora la domanda che lascia sospeso il brano di questa domenica: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» La preghiera incessante è allora, sì figlia del desiderio, ma è soprattutto figlia anche della fede. Figlia della qualità del nostro rapporto filiale con il Padre, dell’intensità del nostro rapporto con il Figlio, fratello e amico, e della nostra corrispondenza profonda con il «gemito» interiore dello Spirito che prega in noi (Rm 8,26,27).